In questi giorni, fra amici e colleghi, è nato un’acceso dibattito sull’articolo pubblicato dall’economist, “il sistema si è inceppato” – in italiano sul numero dall’internazionale di questa settimana, che getta tante ombre sulla scienza e i ricercatori e sui metodi che oggi valutano il nostro lavoro.
L’articolo mette in evidenza molte criticità e affronta soprattutto il problema della valutazione fra pari e riproducibilità dei dati scientifici, che dovrebbero essere il cuore del metodo scientifico moderno, mentre solo alla fine mette in evidenza un punto che secondo me e’ fondamentale: “chi finanzia la ricerca non ha sempre l’obiettivo di migliorare la scienza“. Purtroppo penso che l’articolo abbia molta ragione, e che il problema derivi essenzialmente dal fatto che si sia perso il giusto bilanciamento fra fondi pubblici e privati (o finalizzati) nella ricerca. Tale bilanciamento permetteva, e dovrebbe garantire, un corretto rapporto fra ricerca fondamentale e tecnologica realizzando il gusto mix fra mercato e sapere che per definizione non possono andare molto d’accordo visto che il secondo ha una bassissima probabilità di contribuire al primo, e nessuno investe se non c’e’ ritorno. Sono, infatti, pochi gli illuminati filantropi che possono permettersi da privati di investire senza necessariamente avere prodotti, e non siamo più all’epoca di Galileo, quando per risolvere problemi militari, si facevano grandi invenzioni come il telescopio: le cose da scoprire sono sempre meno, diventa sempre più costo scoprirle, e hanno sempre meno impatto immediato sulla società.
La scienza produce sapere. il mercato prodotti. Il sistema si inceppa quando si vuole che la scienza produca prodotti. Il giusto percorso fra i due mondi dovrebbe avvenire attraverso il trasferimento tecnologico, ovvero capire dalle nuove scoperte quelle che possono diventare innovazione generando prodotti da immettere sul mercato. Le regole del mercato sono la competizione, e quindi la segretezza dei processi e prodotti che si realizzano, quelle della scienza sono la condivisione e il confronto aperto e libero. Se applico le regole del mercato al sapere, queste sono le ovvie conseguenze.
Mi sembra che in europa questo mix fra pubblico e privato, fino a qualche tempo fa funzionasse anche se, concordo, forse con troppo sbilanciato verso il sapere, mentre in Italia soffriamo del problema opposto, ovvero di avere pochissime imprese che investono in ricerca e sviluppo. Oggi, in momenti economicamente difficili, sta scucendo che anche in europa prevalga questa logica del profitto che può essere molto distruttiva, se non viene ben controllata.
Sul numero 1019 di settembre dell’internazionale e’ stato pubblicato un un’altro sconvolgente articolo, “liberare l’università” – dalla rivista The Baffler – che mette in evidenza il problema della formazione in America, dove e’ ancora più chiaro come l’applicazione delle leggi del mercato al sapere si scontrano con il fine profondo della scienza, ricerca ed educazione: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”
Il ruolo che abbiamo noi ricercatori e’ da una parte quello di scoprire cose nuove, ascoltando la natura e le sue piccole increspature che hanno sempre portato alle grandi scoperte, dall’altra di provare nuove vie, diverse da quelle che si conoscono e che il mercato non affronterebbe mai perché richiederebbero un investimento con passissisma probabilità di ritorno economico. Entrambi i processi devono essere liberi e non finalizzati, semmai indirizzati dai bisogni ma senza vincoli e aperti al confronto. In questo è fondamentale ovviamente il valore etico di chi fa il mestiere più bello del mondo, quello del ricercatore, che deve essere il primo garante e responsabile di quello che fa e di come lo fa.
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