La noiosa catena dell’innovazione

La ricerca open source

Ho letto recentemente un’intervista al neo-ministro dell’economia greco, Yanis Varoufakis, che definiva ‘noiose’ le banche perché non sanno fare altro che prendere in prestito il denaro dai cittadini con un basso tasso d’interesse e prestarlo a loro volta alle aziende, allo stato o alle persone con un interesse più alto. Questo semplice e ripetitivo meccanismo è sufficiente loro per sopravvivere.

La stessa ‘noia’ – per appropriarmi dell’espressione – che oggi affligge il funzionamento della catena dell’innovazione: quel processo che dovrebbe partire dalle scoperte della ricerca fondamentale, passare attraverso la tecnologia, arrivare all’innovazione e concludersi con gli utenti finali di questo percorso, rappresentati dal mercato e dalla società.

Ma perché questo processo è diventato improvvisamente noioso? Perché, come per le banche, è fatto in modo antiquato, obsoleto e, troppo spesso, poco finanziato, senza riuscire a cambiare le condizioni economiche e sociali in modo radicale.

Ecco qui il paradosso. La catena dell’innovazione che ‘tradisce’ se stessa e la finalità per la quale è stata creata, ovvero il cambiamento economico e sociale.

Le ragioni di tutto questo risiedono nel fatto che, molto spesso, tutto quello che si definisce innovativo non è ad alto contenuto tecnologico e non sfrutta quasi mai nuove leggi della natura. È, invece, frutto della creatività e capacità di vedere le cose sotto un’altra prospettiva. Una prospettiva che deve piacere al consumatore e alla società, da tempo arbitri supremi di ciò che è utile e produttivo.

Ma allora – mi chiedo – cosa ci sta a fare la ricerca fondamentale all’inizio di tutta questa catena? Qual è il suo ruolo? Cosa si deve cambiare perché tutto questo processo ritorni ad essere veramente produttivo e non ‘noioso’, modificando realmente indicatori come l’occupazione giovanile, la competitività industriale, la cultura e l’attenzione verso l’innovazione?

A tutto questo si aggiunge che i ricercatori – soprattutto quelli di enti che si occupano di ricerca fondamentale – sono a volte poco interessati al trasferimento tecnologico. Infatti, il loro obiettivo principale non dovrebbe essere quello di trasferire tecnologia, bensì di scoprire nuovi fenomeni della natura che, fra 50-100 anni, qualcuno potrebbe imparare a usare per realizzare nuove tecnologie e fare innovazione.

Uso il condizionale perché in realtà oggi tutti gli enti di ricerca, nonostante la loro mission non lo preveda, sono spinti sempre di più verso il trasferimento tecnologico da due fattori esterni: il primo è la valutazione della produttività, non più basata solo sulla qualità degli articoli scritti dai propri ricercatori; il secondo è il reperimento dei fondi disponibili per la ricerca, sempre più indirizzati a finanziare l’innovazione e il mercato, piuttosto che la scoperta.

Sebbene, in questo particolare momento della mia vita, coordini un progetto del MIUR che ha una valenza più tecnologica che scientifica e un servizio che si occupa di formazione e fondi esterni, sono assolutamente convinto che la strada giusta per cambiare qualcosa non sia quella di intraprendere la ‘noiosa’ rotta del trasferimento tecnologico così come ci si prospetta oggi: brevetti, royalty, lavori conto terzi (ovvero l’essere pagati per svolgere un lavoro come una qualunque azienda privata), valutazione dei risultati etc…

Non mi è ben chiaro perché gli enti pubblici di ricerca e le università che sono già finanziati per fare il loro mestiere debbano essere costrette, ed essere le prime a creare delle barriere di ingresso al mercato.

A mio parere la ricerca dovrebbe essere veramente aperta, libera, ma soprattutto valutata e finanziata quanto più è in grado di condividere le proprie idee e offrire le proprie competenze. Dovrebbe, inoltre, collaborare al ciclo produttivo, senza l’obiettivo di entrarvi e ricavarne profitto, ma con l’idea di servire al benessere delle imprese e della società.

Non ritengo che ridurre la ricerca e il sapere scientifico a elementi del business, possa portare a delle reali ricadute in termini di ricchezza per la società. Anzi sono convinto esattamente del contrario.

In parte questo concetto è stato recepito dall’Europa nelle linee guida di Horizon2020, anche se siamo ancora lontani da una vera politica di ricerca, intesa come “open source”. Trovo, infatti, questo concetto ancora troppo distante dalla cultura di coloro che devono barcamenarsi con gli scarsi finanziamenti alla ricerca e di coloro che vogliono valutarne i risultati. Entrambi, a mio parere, sono inconsapevoli del danno che stanno arrecando proprio alla catena dell’innovazione che cercano di far funzionare.

Esiste un modo diverso di fare ricerca, sicuramente più al passo con i tempi. Una modalità in cui emerge chi è capace di condividere idee, di fare la differenza e di innovare, a discapito di chi, accentrando a sé competenze e risorse, non è in grado di ‘fare rete’. Ma tutto ciò richiede un cambiamento culturale che il mondo della ricerca e le istituzioni avrebbero dovuto affrontare già da tempo.

Ringrazio Susanna per l’editing del post

Informazioni su Giovanni Mazzitelli

Senior Researcher - field of interest high energy physics and particle accelerators; science communication and education; sail and alpinism lover
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