Un terzo e ultimo punto che mi ha colpito alla conferenza internazionale sull’Impatto della Scienza nella Società, SIS2016 a Barcellona, è stata l’attenzione data all’open science, gli open data e soprattutto al crowdsourcing. Ospiti illustri sono stati J. Brown di ORCID e C. McCallum di PLOS che hanno raccontato l’importanza dell’open science come mezzo non solo per rendere le informazioni accessibili, ma anche di dare trasparenza al lavoro della scienza. In questo è stato anche criticato il metodo del peer review, pietra miliare della “lobby scientifica”, ma su questo forse basta leggersi gli scritti di Kuhn sulla rivoluzione del pensiero scientifico per capire che anche l’h-index come sistema di valutazione è abbastanza una cavolata. In ogni caso è apparso chiaro che l’open scienze, sia il futuro di una scienza capace di creare un reale impatto sulla società. Peccato che nessuno lo finanzi e anzi che si sta delegando a dei privati, come nel caso di ResearchGate, Google Scholar, Accademia, ecc il lavoro di rappresentare la comunità scientifica. C’è da chiedersi quindi perché questo accada, come c’è da chiedersi perché i bellissimi progetti di crowdsourcing, ovvero quei progetti di ricerca realizzati da ricercatori delle università e centri di ricerca pubblici in cui noi tutti contribuiamo a dare la base dei dati, non siano minimamente supportati dagli enti finanziatori. Quando mi riferisco ai dati da noi forniti, non intendo quelli che diamo a Google o Amazon per sfruttarci come consumatori, intendo quelli utili per costruire una società migliore. Un esempio per tutti? Il lavoro sulle OpenMap di Medici Senza Frontiere. MSF per affrontare le epidemie o gli interventi in territori in guerra ha bisogno di mappe aggiornate e disponibili in opensource ovunque. Organizza quindi degli incontri in cui i cittadini attraverso i loro personal computer “ricalcano” le mappe esistenti o le viste da satellite per crearne di nuove disponibili a tutti e gratuitamente. Un bell’esempio di citizen science che sicuramente oltre ad avere un valore umanitario, è educativo e di impatto sulla società.
Nel frattempo si parla di Responsible Research Innovation, di Open Innovation, ecc, bellissimi concetti privi di grandi significati se non siamo capaci di superare gli attuali modelli socio economici. Mi sembra che in questo ci si metta un po’ troppo opportunismo e tanta ipocrisia. D’altronde la Commissione Europea ha basato il programma di Ricerca e Innovazione Horizon 2020 sulla crescita economica e non sul valore della ricerca o del suo impatto sociale al di la di quello economico. Certo dall’economia fin ora abbiamo ottenuto una società migliore, non lo nego. Ma siamo sicuri che questo possa accadere nel futuro? Inoltre siamo sicuri che noi ricercatori siamo disposti ad assumerci la responsabilità di questo sviluppo economico? Durante la conferenza J.O. Grimalt ha raccontato del disastro ambientale creato sul fiume Ebro in Spagna, che al momento ha richiesto quasi 600Me fra Commissione Europea e Spagna per bonificare il fiume e ne richiederà altrettanti per rimuovere la fabbrica chimica che ha prodotto il danno. Ora in passato nessuno collegava il danno fatto dal proprietario della fabbrica, la nostra famiglia Riva, alla ricerca scientifica. La distanza fra la chimica e il suo utilizzo indiscriminato non veniva legato direttamente alla scienza. Oggi però non è più così: nell’immaginario comune la scienza è molto vicina alla società, c’è grande aspettativa, e si pensa che la tecnologia si la risposta della scienza alle sfide del futuro. Ogni cellulare, app, la stessa internet o addirittura i digital market vengono scambiati per prodotti della scienza. Noi ricercatori ci stiamo di fatto assumendo la Responsabilità di una Ricerca e Innovazione che in realtà non ci appartiene. Forse più che chiedere ai ricercatori di essere responsabili dovrebbero chiederselo prima le agenzie di finanziamento.
@gmazzitelli
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